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Scuola di Preghiera 2014-2015

Farfalla-Charaxes-jasius1

“L’amore non esiste” – dice una canzone, che forse anche voi avete ascoltata! Il testo non è di facile interpretazione. Ma io lo interpreto così: non esiste l’amore in sé; come pura idea, come un principio teorico, come una realtà astratta… La canzone, ad un certo punto, dice: “Esistiamo io e te”. Quasi a dire – ma l’interpretazione è mia e me ne assumo la “responsabilità” – che l’amore può esistere solo nella concretezza dell’esistenza, nella relazione, nel rapporto di due – o più – persone, con un nome e un cognome. Lì, l’amore esiste, dove delle persone si amano. Altrimenti è tutto un discorso di paglia. Un vano chiacchiericcio. Uno stormir di fronde.

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Dagli Atti degli Apostoli

1Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. 3E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?». 5Rispose: «Chi sei, o Signore?». Ed egli: «Io sono Gesù, che tu perséguiti! 6Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». 7Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. 8Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. 9Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda. 10C’era a Damasco un discepolo di nome Anania. Il Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». 11E il Signore a lui: «Su, va’ nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando 12e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché recuperasse la vista». 13Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti quanto male ha fatto ai tuoi fedeli a Gerusalemme. 14Inoltre, qui egli ha l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». 15Ma il Signore gli disse: «Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele; 16e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». 17Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello, mi ha mandato a te il Signore, quel Gesù che ti è apparso sulla strada che percorrevi, perché tu riacquisti la vista e sia colmato di Spirito Santo». 18E subito gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista. Si alzò e venne battezzato, 19poi prese cibo e le forze gli ritornarono. Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, 20e subito nelle sinagoghe annunciava che Gesù è il Figlio di Dio. 21E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Non è lui che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocavano questo nome ed era venuto qui precisamente per condurli in catene ai capi dei sacerdoti?».

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Dal Vangelo secondo Matteo
Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento».
(Matteo 3, 13-17)

1E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c'era più. 2E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. 3Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:

«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!

Egli abiterà con loro 

ed essi saranno suoi popoli

ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. 

4 E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi

e non vi sarà più la morte

né lutto né lamento né affanno,

perché le cose di prima sono passate».

5E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e vere». 

 18Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. 19I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose. Il primo basamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, 20il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. 21E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente.

 (Ap , 21, 1-5.18-21)

Il brano dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato alimenta in noi il desiderio e l’attesa per quel qualcosa di nuovo che ci aspetta dopo questa vita.

Allo stesso tempo non vuole farci evadere da questa vita, né privarci del gusto di essa, ma ci aiuta a coglierla in tutta la sua ricchezza e profondità, ci permette di guardarla in una prospettiva ampia.

La visione dell’apostolo Giovanni (autore dell’Apocalisse) si apre con l’immagine di un cielo e di una terra nuovi e subito dopo con la discesa dal cielo, da Dio, della Gerusalemme nuova pronta come una sposa adorna per il suo sposo (richiamo all’unione definitiva della Chiesa e dell’umanità nuova con Cristo). Possiamo cogliere qui una duplice dimensione: quella del dono e quella della promessa. La città santa, la nuova Gerusalemme scende dal cielo, cioè è dono di noi, non frutto delle sole forze umane. Allo stesso momento questa città santa non è ancora presente, è oggetto di una promessa.

Al dono e alla promessa vanno subito legati altri due aspetti.

Alla dimensione del dono si lega un compito storico che riguarda ciascuno di noi, oggi; alla dimensione della promessa si lega un’attesa, in quanto la completa realizzazione della promessa è in mano all’azione e ai tempi di Dio.

Nella nuova Gerusalemme Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate.

Mi viene in mente questa beatitudine: beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Potremmo pensare al pianto di chi oggi ha nel cuore, profonda, la gioia per aver incontrato il Signore Gesù e arde dal desiderio di testimoniarlo e annunciarlo agli altri. A volte l’accoglienza che si riceve quando si testimonia ed annuncia il Vangelo non è buona o lascia delusi. Dispiace vedere come il tesoro che abbiamo nel cuore a qualcuno non interessi o addirittura urti. Le lacrime dovute a questa esperienza un giorno saranno consolate e ciò che è pienezza della mia vita oggi (la relazione viva con il Signore risorto capace di orientare tutta la mia vita) non sarà più respinto o rinnegato, ma sarà esperienza condivisa.

Notiamo come dal cielo, da Dio, scenda una città. Passate le cose vecchie, non ci saranno solo persone nuove (prese singolarmente), ma ci sarà una nuova “città”, un nuovo modo di essere fratelli, di fare “società”, di essere umanità. Finalmente vivremo veramente e pienamente, in tutta la loro verità, la dimensione relazionale e sociale del nostro essere persona umana.

Mi vengono in mente queste beatitudini: beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli, beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio e una preghiera: Signore, aiutami oggi a non pensare alla mia vita, al mio futuro, considerando solo me stesso. Aiutami a guardarmi intorno, a lasciarmi toccare da ciò che gli uomini chiedono o  soffrono, dammi la luce per capire ciò di cui gli uomini hanno davvero bisogno. Aiutami ad essere generoso, per fare della mia vita un dono “sociale”, cioè a servizio del bene e della gioia del prossimo. In questo modo, già ora possiamo essere parte del regno di Dio e vivere il nostro essere suoi figli, in attesa che un giorno questa realtà non sia più soggetta a nessun limite, a nessun pericolo, a nessuna minaccia, a nessuna incredulità, a nessuna persecuzione.

Si diceva prima che dal dono di Dio scaturisce per noi un compito storico: la Gerusalemme che scende dall’alto, come dono di Dio, non è estranea alla nostra storia.

I materiali preziosi con cui sono costruiti i basamenti delle sue mura potrebbero essere pensati come la trasfigurazione dei materiali “poveri” che siamo stati in questa vita. Attenzione: l’immagine di materiale povero non ha nulla a che vedere con la nostra dignità di figli creati dal Padre, con il nostro essere suoi, amati dall’eternità. La povertà allude al fatto che in questa vita terrena sperimentiamo i nostri limiti, l’incapacità ad amare come vorremmo, la sofferenza, l’ingiustizia, l’incomprensione, l’incomprensibilità di persone o avvenimenti, la morte. In cielo, ci promette la Parola di Dio, tutto ciò sarà superato, per dono di Dio; saremo pietra “trasfigurata”. Oppure, riprendendo l’espressione paolina La nostra vita è nascosta con Cristo in Dio! (Col 3,3), in cielo quel diamante che ciascuno di noi è dal momento in cui, nel Battesimo, abbiamo ricevuto la vita in Cristo, sarà visibile nel suo vero splendore grazie alla potenza dell’amore di Dio.

Mi viene in mente questa beatitudine: beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Poveri in spirito, cioè consapevoli della propria povertà, della propria dipendenza radicale da Dio, del proprio essere figli bisognosi di tutto. Allo stesso tempo, però, aperti alla Parola, all’amore, al dono che Gesù fa di se stesso per noi. Pur povere e sempre limitate, le nostre azioni, le nostre parole, le nostre scelte fatte per amore di Gesù contribuiscono a costruire una città terrena più umana, fraterna, giusta, vivibile ed entreranno a far parte, trasfigurate, del regno dei cieli, della città santa, della Gerusalemme nuova (cfr. GS 39). Oppure, usando l’immagine del diamante di poco fa, quelle opere manifestano in verità chi noi siamo: figli amati dal Padre, redenti da Cristo, abitati dallo Spirito e perciò abilitati ad amarci e donarci come Gesù ha amato noi.

Io immagino, sulla bocca di un povero in spirito, parole come queste: Signore Gesù, ti prego, insegnami ad amare come Tu hai amato. Io sperimento la mia debolezza, il mio peccato, le mie contraddizioni, ma Tu insegnami ad amare come ami Tu.

La vita eterna non ci è estranea: ce l’abbiamo dentro, seminata come dono nel giorno del nostro Battesimo. Dobbiamo lasciare che parli in noi sottoforma di desiderio, agisca in noi come prospettiva, doni a noi la forza per il cammino di oggi. In tante nostre esperienze (di relazione, di dono, di servizio,…) noi sperimentiamo allo stesso tempo una pienezza (per cui ci viene da dire vorrei che fosse per sempre) ma anche il senso che manchi qualcosa (espresso da quella sensazione di provvisorietà, di amaro che sentiamo in bocca, dalla certezza che le realtà della terra sono soggette alla caducità): in tali esperienze siamo chiamati a riconoscere l’azione dello Spirito Santo che ci spinge ad entrare e a sperare in quella vita piena ed eterna, che per noi non è conosciuta, ma neppure del tutto sconosciuta (cfr. Agostino, Lettera a Proba).

Molto significativo è pensare a delle persone che hanno scoperto la chiamata a vivere radicalmente il loro Battesimo (e dunque sono entrati con decisione nella dinamica della vita eterna). Mi riferisco ai religiosi (suore, frati): l’amore di Dio che hanno sperimentato su di loro è così grande da dare loro la grazia di testimoniare che esso basta a colmare il loro cuore. Non disprezzano le belle realtà terrene cui hanno liberamente rinunciato (ad esempio la possibilità di sposarsi), ma l’amore ricevuto basta da solo a colmare di pienezza e gioia la loro vita. Così, con la scelta della verginità, dicono: Il mio desiderio affettivo, il mio amore non è ancora appagato, lo Sposo (l’Agnello) deve ancora venire e ci ricordano che qualunque amore umano non può pretendere di essere definitivo e appagante. D’altro canto, chi sceglie la verginità annuncia che ha incontrato lo Sposo, che lo Sposo si è reso presente nella sua vita e l’ha chiamato e attirato a sé. I consacrati rinunciano a tutto il resto, per ritrovare tutto in modo nuovo, perché in loro l’amore di Dio sta facendo cose nuove. Così ci ricordano che solo l’amore di Dio ci sazierà per sempre. In questa stessa prospettiva possiamo cogliere una delle motivazioni del fatto che i preti rimangono celibi.

Dentro la dinamica della vita eterna ci stanno anche quei per sempre che nella fede siamo chiamati a dire. Come è possibile per noi umani (fragili e limitati) prendersi un impegno per sempre nel matrimonio cristiano o nel sacerdozio, per tutta la vita? Possiamo farlo solo mettendo nelle mani di Dio, il Fedele e l’eterno, il nostro impegno che da solo sarebbe incerto, tentennante, inaffidabile, troppo debole. Affidiamo il nostro sì balbettante ma fiducioso, alla custodia del sì eterno e fedele di Dio, in Cristo.

Nella speranza della Gerusalemme celeste cogliamo il motivo per cui giocarci nel presente, spenderci per ciò che nella mentalità mondana è inutile ma che invece costituirà materiale prezioso per la costruzione della Gerusalemme nuova. In questa città che un giorno riceveremo in dono troviamo il serbatoio di energia per agire, la riserva di amore per spenderci per migliorare questa terra, per non sottrarci alle nostre responsabilità e alle scelte cui siamo chiamati. È un lavoro che chiede determinazione, passione, creatività, ma non è un lavoro inutile. Se lavoriamo su questa terra con questo spirito, stiamo lavorando per chi ha vinto, vince e vincerà. Non stiamo buttando via nulla, non stiamo sprecando nulla, non stiamo mortificando nulla di noi stessi;  stiamo costruendo un tesoro di cui ora gustiamo un assaggio (misto ogni tanto a qualche amarezza, paura, indecisione) e che un giorno sarà per sempre (cfr. GS 39).

Le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (16,22), ci ricordano che possiamo pensare la vita eterna come un essere sopraffatti dalla gioia (cfr. Spe Salvi, 12) e noi possiamo entrare nella dinamica della vita eterna solo attraverso una relazione viva con Gesù (nel brano di Apocalisse la Gerusalemme celeste è presentata come la tenda di Dio con gli uomini, richiamo esplicito al mistero per cui il Figlio di Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi). Per questo ogni momento di intimità con il Signore Gesù è già partecipazione a quella Gerusalemme celeste in cui godremo della sua presenza in modo pieno. Scriveva C.M. Martini: L’eternità, la vita nuova e definitiva è già entrata, con la morte e risurrezione di Gesù, nella mia esperienza. È da me vissuta, qui e adesso, nell’indistruttibilità dei gesti che compio: di amore, fedeltà, perdono, amicizia, onestà, libertà responsabile. Gesti nei quali supero misteriosamente il tempo raggiungendo l’eternità nella misura in cui mi affido alla vita e all’eternità del Crocifisso risorto che ha vinto la morte. È bello pensare che posso riscattare l’angoscia del tempo, la storia del mio corpo, con atti di dedizione che hanno un valore definitivo, depositato nella pienezza del corpo risorto di Cristo! È bello pensare che ogni parola che dico nella preghiera è un mattone lanciato nell’eternità per costruire la dimora che non ha fine.

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